Straripamenti.
Di questo essenzialmente sono fatte le poesie di Milena Musu. Straripamenti di amore, di rabbia, di tenerezza per l’umano.
Milena ha uno sguardo lucido sulle cose del mondo, quello di dentro e quello di fuori, pur osservandole da vicino, senza distacco. Sullo sfondo, i suoi luoghi, non solo abitati, ma profondamente vissuti. La valle del Setta, dove ormai da anni vive e lavora; la Francia; gli echi sempre presenti – pur se più lontani, in quest’ultima silloge – della sua Sardegna. In primo piano, la compassione per i propri simili e per tutto ciò che è vivo (memoria inclusa), nonostante gli abusi e gli stupri del potere.
Alberga, in queste poesie, la dolorosa sensazione di un tempo – il nostro – impantanato e bloccato in un fango da cui tuttavia si può e si deve uscire. Non da soli, però. Perché è alla solitudine che questo tempo tenta di condannarci. E l’unico antidoto alle guerre imposte, alle pestilenze, alle offese alla natura è ricostruire un tempo collettivo, un Noi che ci scrolli di dosso i sassi e le macerie che ci opprimono il cuore.
Milena Musu usa la parola come arma, come oracolo, come grido ma anche come tocco che sfiora. Una parola che si fa corpo: corpo di donna intera, che parla a tutte e tutti. Una parola necessaria: pietra aguzza per tagliare, levigata per accarezzare. Sa – come Blas de Otero – che nonostante tutto “ci resta la parola”: ci chiede di ascoltarla e, al tempo stesso, di ricominciare ad usarla.
Francesca Esposito