Un viaggio per mare attraverso le esperienze che modellano l’identità personale, sul filo conduttore e a commento della poesia Itaca (1911) di Konstantinos Kavafis. Un testamento spirituale. Un libro che si può scrivere solo una volta approdati a Itaca.
Prima considerazione. La poesia di Kavafis si chiude con queste parole: «E avrai capito ciò che Itaca sta a significare». La maggior parte dei commentatori dà questa spiegazione: ciò che conta veramente nella vita è il viaggio più che la meta, e dunque le esperienze che si fanno durante il viaggio. Questo, in un certo senso, è condivisibile. Ma Kavafis dice espressamente: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di essa mai ti saresti messo in cammino». Itaca, dunque, la meta, genera il viaggio, anzi il bel viaggio, non un viaggio qualunque. Oltre ad averlo generato, Itaca determina il viaggio conferendo la propria impronta alle tue esperienze. E raccomanda ancora: «Tienila sempre in mente Itaca, raggiungerla sia il tuo pensiero costante». Deve dunque trattarsi di una meta ben importante. E quale sarà mai? All’inizio della poesia Kavafis introduce una condizione che deve immediatamente allertarci: «Quando ti metterai in viaggio per Itaca». Il che significa che noi non siamo in viaggio fin dalla nostra venuta al mondo, ma che ci mettiamo in viaggio, se mai lo facciamo, in un momento ben preciso e in seguito a un atto decisionale, consapevole o no. Risulta dunque evidente che il significato di Itaca dobbiamo cercarlo altrove. Ed è appunto ciò che fa questo libro.
Seconda considerazione. «In questo momento storico», scriveva Martin Heidegger nel 1946, «dobbiamo incominciare a capire che il poetare concerne anche il pensare». Cosa significa? A detta di Luce Irigaray, ogni epoca avrebbe, secondo Heidegger, una cosa soltanto da pensare. E la cosa da pensare del nostro tempo, affermava lei nel 1985, è la differenza sessuale. Ora, per duemilatrecento anni la filosofia è stata un esercizio per soli uomini. E un esercizio solipsistico, dove la relazione era concepita come relazione di un Io a se stesso, mai come relazione a un altro; dove l’altro, a cominciare dalla donna, esisteva solo come oggetto per il soggetto pensante maschile, mai come soggetto autonomo. Ventitré secoli, tanto è durata la fatica del pensiero per liberarsi dalle costruzioni della metafisica, prodotto della razionalità maschile, di una mentalità “strategica” volta al dominio. Se il linguaggio della ragione si è fermato all’universale, all’astratto, oggi occorre trovare un nuovo linguaggio filosofico capace di far parlare la vita. Questo per me è il significato dell’invito a coniugare pensare e poetare, che è appunto il tentativo messo in atto in questo libro attraverso una scrittura filosofica narrativa. Il pensiero filosofico si è storicamente ritratto dalla vita forse proprio perché per tutto questo tempo è stato l’espressione di un unico punto di vista, di un lato soltanto della mente umana ‒ per dirla con Virginia Woolf ‒ che è invece duplice, è maschile e femminile insieme in ciascuno di noi, uomo o donna che sia. Quella unilateralità potrà essere superata soltanto se in ciascuno di noi sapremo attivare entrambi i lati della mente, quello maschile e quello femminile, quello razionale e quello poetico.
Alberto Meschiari è stato per trentacinque anni ricercatore di Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Si è occupato di Storia della filosofia, Filosofia del linguaggio, Filosofia morale, Storia della scienza e Narrativa, pubblicando più di trenta volumi e otto opuscoli. È autore, fra l’altro, dell’originale proposta di un’etica del reincanto e di cinque strategie del reincanto per riprendersi la vita.