Potere e magia del movimento
Il treno partì lentamente. Dal finestrino guardavo avanti, quando all’improvviso un grande e sorridente Sole apparve all’orizzonte. Era il mio primo viaggio in Italia e quella visione mi sembrò un buon augurio. Al pensiero sorrisi anch’io. In quel momento non sapevo quanta strada avrei dovuto percorrere per capire il significato di quell’immagine. Non sapevo ancora che avrei dovuto attraversare un sotterraneo, lungo viaggio. Sarebbe stato l’amore per la danza a mostrarmi il cammino.
All’inizio dei tempi, l’amore era scritto con i miti. Era attraverso i miti che si narravano le storie degli dèi. In quale forma si trasformavano, per amare, divinità come Shiva, Dioniso, Eros? Dovevano svelare i loro misteri per essere visti? È l’amore che muove gli dèi?
Perché non immaginare, allora, anche la danza come una dea? Un archetipo divino come le dee Ochún e Yemayá? La danza, come gli dèi, non viene forse dalla terra, dall’acqua, dal fuoco e dal vento? Non è forse la sua forma divina a scoprire ciò che siamo? L’origine della creazione non è forse un atto d’amore?
“La danza si fa, non si scrive”, diceva Isadora Duncan. Perché scriverne allora, quando la danza è l’arte senza parole? Riconosco che è rischioso tradurre la danza con le parole. Tuttavia, l’impulso a scrivere è stato forte – dentro di me – ed è cresciuto fin dai primi anni d’insegnamento, quando gli studenti mi chiedevano con entusiasmo se avessi un libro da consigliare sui diversi argomenti emersi durante le lezioni. La mia risposta era sempre la stessa: non c’è un solo libro ma più di uno, poiché si tratta dell’unione di varie discipline e di linguaggi diversi.
Spesso gli allievi mi chiedevano se avessi intenzione di scriverne uno. La mia esperienza di giornalista mi avrebbe già permesso di affrontare la sfida, ma allora sentivo che non fosse ancora giunto il momento. Sapevo che scrivere un tale libro significa trovare la propria danza, la propria anima. Riconoscevo che la ricerca di un linguaggio è una strada lunga, un processo complesso, un lavoro continuo nel tempo fatto di domande, esperienze, silenzi e solitudine. Sentivo che la pedagogia, e non solo la creazione scenica, può essere un percorso dell’arte, dell’arte della vita. E un libro poteva servire e accompagnare la realizzazione di questo ideale.
Sappiamo che la danza è vita perché è movimento. Anche le parole possono esserlo, se assolvono al compito di descrivere a distanza, con distacco, ciò che è stato creato. Le parole sono l’anima di una lingua, incantesimi che diventano stimoli per immaginare, creare e danzare. Le parole ci aiutano a riflettere. Scrivere la danza può diventare il filo di Arianna, quella del labirinto, che danza tessendo i suoi fili per non perdersi, o meglio per perdersi e ritrovarsi un’Altra. Addentrarsi nel labirinto significa penetrare nella danza della vita: aiuta a scoprirci nel presente, ma anche a riflettere su ciò che siamo stati e ciò che aspiriamo ad essere.
La danza è capace di far rivivere il mito che vive dentro di noi, di farci conoscere l’essenza della nostra natura; ma serve anche a riconoscere l’Altro, l’altro nostro volto e quello del prossimo. Vita, danza e amore sono i simboli del labirinto, attraverso i quali viaggia la mitica Arianna. E la “follia” che la ricerca comporta, come dice la poetessa Alejandra Pizarnik, ci aiuta fino a quando non si trova una via d’uscita.
Per scrivere sulla danza ho usato come premessa la metafora dell’amore, legata agli dèi e ai miti, perché è stata la danza a insegnarmi ed a spingermi a conoscerli. Amare i loro simboli archetipici, danzarli, implicava riconoscere l’amore nelle sue molteplici forme, nei suoi ritmi e nelle sue energie. Dalle loro allegorie ho imparato la melodia interiore, il movimento.
Sono arrivata alla parabola dell’amore anche attraverso un gioco di associazioni e di forti intuizioni. Sono state la forma e la risposta al mio modo di “guardare” la danza a portarmi all’essenza di ciò che cercavo. Il disegno metaforico che iniziavo a costruirmi attorno, mi portava alla scrittura. Gli dèi e l’amore come archetipi che assumono la Totalità della vita. Le loro qualità risultano simili: sono divini, raccontano storie, conoscono i princìpi delle relazioni e delle energie opposte, i percorsi segreti e il mistero per raggiungere il centro di sé stessi. O, semplicemente, questa metafora era solo un pretesto per raccontare il mio approccio alla danza: un atto di fede, un atto di amore.
Volevo raccontare la mia danza anche da un altro punto di vista, dal luogo che le corrisponde: l’alterità. La danza come un rito necessario e liberatorio per incontrare l’Altro io che ci abita e per riconoscere la nostra identità. Un cammino per ascoltare le risonanze, gli echi della propria voce, per non lasciare che il sogno si spezzi e muoia. La danza come un impulso dionisiaco, che scorre come un fiume controcorrente, dal momento in cui affermiamo ciò che sembrava ci fosse stato negato. Le acque di quel fiume, nell’aspirazione alla libertà, mi hanno portata, nonostante le difficoltà e senza volerlo, a confini inimmaginabili. Perché alla fine nulla si perde quando non si ha niente. Perché prima dell’incontro con noi stessi siamo privi di ogni forma.
Il percorso del mio lavoro mi ha fatto guardare la danza come l’unione di un Tutto, in cui il teatro antropologico e gli aspetti terapeutici del movimento potevano essere connessi. Cercavo di far sì che Totalità significasse Unione; ma anche Relazione, Incontro, Umanità. Un linguaggio che abitasse il corpo, l’anima e il cuore di tutti coloro che avessero sentito il richiamo a esprimersi. Un luogo dove non esistesse un limite di età, di fisico o di talento, e dove tutte le persone – nessuna esclusa, nella ricchezza della diversità – potessero danzare. Perché la cultura del corpo è universale. Perché l’amore, nell’integrazione e nella partecipazione, è magia e potere.
Così è nata la Danzateatro delle Origini, e questa è la sua storia.